Giornalista: un mestiere che oggi è divenuto altro

In troppi a scrivere, in pochi a leggere.

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Giornalista: un mestiere che oggi è divenuto altro

Giornalista: riflessioni spassionate e suggerimenti su comunicazione, web writing e blogging.

“Scrivere è urlare nel silenzio” sottolineava Marguerite Duras. Scrivere è dunque sì attività solitaria quando ci si concentra sul dire e sul non dire. Ma comunicare, fare giornalismo, web writing e bloggerare non può che essere “condivisione” non solo virtuale ma frutto di relazioni. E fare il giornalista?

Ecco perché voglio proporvi in questo articolo alcune riflessioni e consigli sulla base della mia esperienza di giornalista professionista di vecchia data abituato alla “precaria vita” di chi scrive, mettendomi in gioco e dandovi qualche spunto per evitare che anche chi si avvicina a questo mestiere possa farsi illusioni e commettere gli stessi errori che ho fatto io.

  • Passione
  • Cura delle fonti
  • Studio
  • … ma soprattutto una lettera di presentazione al direttore di un giornale

Meglio non farsi illusioni. Per esercitare la “nobile arte di scrivere” e diventare magari giornalisti pubblicisti, servono alcuni fondamenti essenziali, di quelli che ricordava in un’intervista Lina Wertmuller in cui si parlava del mestiere di attore ossia “un tetto sulla testa e un piatto di minestra”.

Senza cedere alla disillusione ovviamente bisogna tenere conto del fatto che troppo spesso viene confuso il desiderio ardente di scrivere con un’attività quasi hobbistica che tradurre in qualcosa di economicamente remunerativo è difficile anche se non impossibile.

Se qualcuno ricorda il motto latino “carmina non dant panem”, magari, la giusta conoscenza e una lettera di presentazione, soprattutto quelli più ricercati in cui serve avere almeno la possibilità di metterci alla prova, potrà costituire un solido baluardo per costruire casa e piatto di minestra ed evitare, come mi dissero una volta, “lei rischia di arriva a 50 anni e girare redazioni per prendere 50 euro a pezzo”.

Se poi arrivano le giuste occasioni, mai lasciarsele sfuggire accampando moralismi insensati. Io ebbi questa “stortura mentale” e rinunciai al Corriere dello Sport.

Poi, per fare il giornalista, è necessaria davvero tanta passione, serve accreditarci come “autorevoli” con contenuti che verranno apprezzati proprio in virtù della reputazione che ”emergerà dai nostri pezzi” con la necessaria attenzione (e citazione sempre) delle fonti e dei dati raccolti. Il “giornalista Google” insomma ha poca “appetibilità”.

Come detto ad inizio di questo pezzo, scrivere è tessere relazioni. Con il lettore, con chi ci guarda e si aspetta “ciccia”, con le nostre analisi che, se ben fatte, potranno creare qualche interesse sulla base di quello che scriviamo. E non è affatto facile perché il lettore “sente” chi scrive con passione e chi lo fa per riempire una pagina. L’amore per il proprio lavoro è la spina dorsale della vita diceva Friedrich Nietzsche.

Un mio vecchio direttore amava dire: “Vai sul posto e avrai già venti righe da scrivere”. Osservare i fatti sul campo, annotare, rilevare, raccogliere informazioni è ciò che distingue un pezzo giornalistico abbastanza “reale” dalla troppe volte (causa fretta) organizzazione del materiale tramite un “metallico” comunicato stampa.

Ecco perché non possiamo vivere in “smart working” come modalità del futuro pensando che sia la stessa cosa del vivere “il lavoro”. Perché abbiamo bisogno di condivisione vera, di rapporti reali, di confronti, anche accesi, di dibattiti, stare insieme per capire anche come andare avanti. Faccio un esempio: per quasi 15 anni ho lavorato in una nota casa editrice degli anni Ottanta, per 5 mi sono occupato della pagina cultura dello storico quotidiano Il Tempo.

La mia scrivania e il mio ufficio erano un segno di appartenenza. E poi alzarsi la mattina, uscire di casa, arrivare e prendere il caffé assieme ai colleghi per poi, la sera, tornare con la soddisfazione di aver fatto un buon lavoro. Lo smart working è la negazione di tutto questo. Anche a livello economico per l’indotto che porta guadagni on line ma lo toglie troppe volte ad aziende e imprese che sono sul nostro percorso di lavoro (fuori casa). Possiamo davvero affidare i nostri rapporti a una connessione, spesso instabile, a livello tecnologico ed emotivo?

Personalmente ho lavorato in tante e tra le più sgangherata redazioni dove comparivano di tanto in tanto personaggi da tregenda e da operetta. Ma tutto ciò si chiama vissuto di cui solo averne fatto parte porta ricordi di vita reale che, anche quando non sempre piacevoli, fanno la sintesi di ciò che siamo ognuno con le proprie esperienze.

Certo, oggi che abbiamo dato vita ad un giornale on line dopo la crisi dell’editoria e la conseguente casa editrice dove lavoravo, con mia moglie e il mio amico collega di stanza ci siamo rimessi in piedi, troviamo ampie soddisfazioni (pur lavorando da casa). Ma in ufficio era un’altra cosa, inutile fare finta di niente.

Affidare il piacere di esprimersi e di provare a coinvolgere con la propria “visione del mondo” è quello che appartiene al divertimento del “bloggare”. Anche qui vale la pena di non dare adito a equivoci. Un blog per affermarsi ha bisogno di un investimento costante in energie a medio-lungo termine.

E ci si arriva a pagare le spese di hosting, forse. Con il blog non ci si guadagna ma… ci si diverte e ci si esprime. Che non mi pare poco. Magari provando a dare qualche consiglio, puntando ad un target ben preciso che possono, a volte, trovare il piacere di leggerci.

Blogging e web writing sono l’evoluzione della comunicazione ma occhio a non puntare solo ed esclusivamente ai motori di ricerca. Bisogna tentare di “emozionar\”, avendo come obiettivo principali i contenuti e la famosa indicizzazione verrà.

Cosa comunica? Ciò che ci appassiona. Quando scrivo di qualcosa che “sento” veramente, chi legge troverà “sintonia” in me. Senonaltro perché, non sempre facile arrivarci, potrà pensare: ah vedi? Succede anche a me proprio così.

Troppo spesso, in conclusione, e durante questa pandemia ci siamo abituati a web cam, rapporti virtuali, condivisioni affidate ai social. Per vivere e per lavorare serve invece fare esperienze.

E l’unica esperienza reale è quella della vita vera in qualunque forma essa si manifesti. Per questo ho voluto mettere “in rete” la mia esperienza, sperando possa essere utile come un sassolino gettato nello stagno.

Quando ho fatto l’esame di stato per diventare giornalista professionista, anche al secondo tentativo che andò molto bene e ottenni vari complimenti, dopo una prima volta andata a vuoto, ricordo la gente, l’emozione, le persone in attesa sia il giorno degli scritti e degli orali.

Ricordo ogni attimo e il desiderio di rialzarmi, come Rocky, non ancora al tappeto, dopo la prima delusione. Ecco, la vera vera prova sempre a insegnarti a sperare, a capire, a guardarti intorno. Con i colleghi, con chi fa parte “del palcoscenico“. No, non è la stessa cosa lo smart working che più che smart diventa troppo slow. Almeno in termini di ricordi e cose da raccontare, per poi magari, semplicemente aprire un blog e provare a fare un po’ di “storytelling”, girando per la città e raccontando la propria “weltanshauung”.

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“Le corse in moto e il fastidio della modernità, il gusto della solitudine e il perdersi nella massa, l’ansia d’assoluto e il minuto mantenimento del presente, uomo del suo tempo eppure nato fuori tempo, asceta ed esteta”.