“La vita umana è breve, ma io vorrei vivere per sempre”. L’ultimo appunto lasciato da Yukio Mishima sulla scrivania mercoledì 25 novembre 1970 prima del rituale Seppuku contro la svendita dei valori tradizionali giapponesi all’invasione del materialismo. Parole che fanno riflettere e che proiettano la figura del grande scrittore giapponese oltre ogni icona di parte e di partito.
Sono trascorsi oltre cinquant’anni da quando Yukio Mishima decide di togliersi la vita facendo seppuku, antico rituale samurai composto da auto-sventramento e decapitazione da parte di un fidato compagno d’armi. Seppuku è sinonimo del più popolare harakiri. L’antico rito suicida partiva dal ventre (hara) in quanto si riteneva che fosse la sede dell’anima. Gli ultimi momenti del grande scrittore vennero trasmessi in diretta con l’appassionato ultimo messaggio effettuato di fronte a un migliaio di uomini del reggimento di fanteria.
Yukio Mishima è oggi icona ancora troppo pop e poco letteraria. Amore e morte sono i temi essenziali che si intrecciano nell’opera di Mishima che punta con ciò che scrive all’incarnazione di ciò che è. In primis, il patriottismo. Non la parola oggi abusata e stra-abusata da guitti e politicanti di ogni risma per qualche voto in più, no. “Patriottismo” in giapponese si scrive Yukoku, termine composto da due ideogrammi di cui il primo significa “preoccupazione” e il secondo vuol dire “paese/stato”. Il significato complessivo della parola patriottismo per un giapponese autentico arriva ad essere, dunque, “sensazione di tristezza al declino delle condizioni spirituali della nazione”. Quanta mirabile saggezza nella lingua giapponese.
L’altro argomento essenziale nella weltanshauung di Mishima è costituito dalla decadenza conseguente all’americanizzazione e alla colonizzazione “inculturale” della svendita dei valori tradizionali della propria cultura alla “macdonaldizzazione” del mondo.
“Avevo solo dieci anni quando i B-29 arrivarono sopra di noi. La mia famiglia visse per tre giorni sotto terra. E quando venimmo fuori la città non esisteva più. Il grande calore portò la pioggia. Una pioggia nera. Voi rendeste nera la pioggia. Poi ci cacciaste a forza in gola i vostri valori. E noi perdemmo la nostra identità. Voi avete creato Sato e migliaia di uomini come lui”.
All’americanizzazione Mishima contrappone la visione tradizionale dei valori giapponesi permeati dalla cultura greca da cui era affascinato. Soprattutto per il concetto di kalokagathia ossia quell’ideale aristocratico di perfezione fisica e morale dell’uomo. Con questa visione del mondo inchiavardata sul proprio essere, Mishima diventa l’emblema di un patriottismo dal volto romantico che ben poco ha a che fare con le urla smodate di certi sovronanismi di recente matrice. Mishima muore per dare concretezza a questa visione del mondo come un moderno Samurai, un Kamikaze dell’essere e rendere omaggio ad una patria che scompare. Come il Tramonto dell’Occidente di spengleriana memoria. Anche la venerazione all’Imperatore non ha nulla di “umano, troppo umano”. Rappresenta il tentativo di convolgere un “semidio”, l’ultima preghiera a quel solo Dio che può salvare di cui ebbe a dire Heidegger. “Il volto di Sua Maestà è visibile nel sole che tramonta”, commenta Isao.
L’accusa di Mishima è la denuncia al Giappone “dal ventre pieno” e afferma che “il piacere stesso ha perduto ogni sapore” e che “l’innocenza è venduta in piazza”. Per Mishima, esasperato dall’ignavia del suo tempo, le lettere dei giovani kamikaze diventano gride disperate o, come avrebbe detto Montherlant, “voci di un altro mondo”. Nel pieno di quello che chiama il fiume dell’Azione, fonda la Società dello Scudo o Tatenokai che dovrà essere lo “Scudo dell’Imperatore”. “Siamo il più piccolo esercito del mondo e, spiritualmente, il più grande”. Non è imperialismo nel senso più infimo dell’espressione, quanto più propriamente un nazionalismo spirituale, sentimentale, a tratti intellettuale.
Non si faccia di Mishima un “fascista”
Parlare di fascismo quando si parla di Mishima è quasi inevitabile. Ma è inevitabile perché bisogna sottolineare che si tratta di un abbinamento errato. Il fascismo è fenomeno occidentale, mediterraneo, il fascista è insieme un reduce ferito nell’animo o un membro della borghesia che teme l’onda bolscevica e si allea con la grande proprietà terriera, laddove esiste ancora, e con l’industria.
Nazionalismo e imperialismo sono una strategia del “patriziato dominante” per esaltare le folle, sostenere l’industria, sorreggere il consenso. Ancor meno risulta logio accostare Mishima al nazismo, lugubre fenomeno di stampo meramente germanico che, caratterizzato dalle ossessioni per il sangue, sostituisce il conflitto di razza a quello di classe. Nonostante esistano suggestioni tedesche nel Giappone militarista, esse non presentano in alcun modo quei caratteri di esoterico e pagano tipiche del nazionalsocialismo hitleriano.
I moventi di Mishima sono diversi. Sa di essere uno sconfitto e appare come un moderno Adelchi di manzoniana memoria: “Soffri e sii grande, il tuo destino è questo”.
Attualità di Yukio Mishima
Ora, cosa può insegnare Mishima ancora oggi? Di fronte alla perdita dell’identità e al ripudio di ogni tradizione, quando non diventino operetta o concessioni del potere che le manovra per farne feticci masturbatori, Mishima può raccontare una diversa idea della vita rispetto a quella della globalizzazione e del nichilismo. Forse può esistere un valore superiore alla libertà, alla democrazia e perfino alla vita. Mishima, come conferma in Sole e Acciaio, punta alla “profondità della superficie”. Instaura una relazione con la vita che è mediata dalla parola per approdare a un estetismo militante. Una traccia che possa oltrepassare l’Aut-Aut di Kierkegaard per rivivere il concetto di bello greco ovvero trasfigurato nella metafisica.
Nel resoconto di un suo viaggio negli Stati Uniti Mishima registra un profondo appiattimento dell’idea di bellezza: “In America non esiste niente che si contrapponga alla bellezza. […] Aprendo le finestre dell’albergo non si vede nulla di troppo brutto o sgradevole. […] Ormai nel territorio della bellezza non esiste più niente che possa meravigliare la borghesia”.
L’alternativa, dunque, è “Far rinascere l’Assoluto”, restituire giustizia alla bellezza, le caratteristiche di sempre della letteratura e della vita di Mishima che tornano oggi come “armi rivoluzionarie” contro l’appiattimento di massa verso il barbaro e il volgare. Mishima innalza il corpo come soggetto di amore e di morte ad “amor fati” e lo consacra a qualcosa che vede “oltre”. Al culto meramente materialistico del corpo della società contemporanea, tutto silicone e paura di invecchiare, Mishima contrappone la concezione classica della bellezza, come un Dio greco. La estremizza al punto che dirà: “Per una morte romantica ed eroica erano indispensabili muscoli possenti e scultorei”.
Yukio Mishima, l’urlo di un Giappone al tramonto
Il 25 novembre, prima di fare seppuku, compie i suoi soliti gesti di scrittore. Invia il manoscritto del Mare della fertilità al suo editore, pranza con i genitori e ogni gesto assume la solennità della fine. La madre si accorge che è stanco.
Si rade e poi indossa la divisa del Tatenokai e prima di uscire dallo studio lascia il suo biglietto di addio. È il Mishima del San Sebastiano, il corpo muscoloso, la pelle levigata, l’erotismo del corpo e dello spirito che abbinano il piacere in senso pagano a la visione del martirio di stampo cristiano che in Guido Rni si traduce in estasi.
Nel 1968, Mishima pubblica La difesa della cultura in cui si scaglia contro il “culturalismo” che considera un “disvalore” perché costringe i popoli ad appiattirsi su alcuni aspetti della cultura per rinnegarne altri. Mishima era consapevole che poteva dirsi conclusa un’epoca. Per questo motivo è ridicolo farne un nostalgico. Semplicemente non poteva vivere in un Giappone che non riconosceva più.
“La limpidezza, la franchezza, l’onestà, l’elevatezza morale dello spirito giapponese, sono cosa nostra”. I nemici erano il comunismo e l’americanismo, due volti del mostro poliforme che trama per sradicare lo spirito dal corpo di ogni essere. La sua era una battaglia culturale senza possibilità di resa: “La nostra controrivoluzione consiste nel respingere il nemico sul bagnasciuga, e il bagnasciuga non è quello del territorio giapponese, ma la diga dei frangiflutti dello spirito di noi giapponesi uno ad uno. Bisogna affrontare la massa degli schiavi rivoluzionari, con il fegato di chi va avanti da solo anche se gli atlri fossero milioni. Non bisogna curarsi degli insulti e delle calunnie, dello scherno e delle provocazione della folla, ma bisogna affrontarla decisi fino alla morte, per risvegliare quello spirito giapponese che ha corroso. Noi siamo coloro che incarnano la tradizione di bellezza del Giappone”.
Una visione del mondo che divenne azione quel 25 novembre del 1970, insieme a quattro uomini del Tate no Kai, Mishima entra nell’ufficio del generale Mashita, si affaccia dal balcone pronuncia il suo ultimo discorso: “Dobbiamo morire per restituire al Giappone il suo vero volto! È bene avere così cara la vita da lasciare morire lo spirito? Che esercito è mai questo che non ha valori più nobili della vita? Ora testimonieremo l’esistenza di un valore superiore all’attaccamento alla vita. Questo valore non è la libertà! Non è la democrazia! È il Giappone! È il Giappone, il Paese della storia e delle tradizioni che amiamo”. Rientra nella stanza e compie lo stesso dei funzionari imperiali alla fine della seconda guerra mondiale: sguaina la spada, si tocca il ventre e affonda la lama. Offre la sua esistenza al un mondo che non esiste più. Molti potranno sorridere. Ma il Giappone era anche questo. Come con i Kamikaze. Facile che l’Occidente non capisca.