Giorgio Càeran: vespista leggendario e viaggiatore oltre gli schemi

Giorgio Càeran e la sua storia. Per capire cosa davvero significhi “possedere” un impulso alla libertà. Che si traduce in viaggio, una certa idea di viaggio e del mondo.

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Giorgio Càeran: vespista leggendario e viaggiatore oltre gli schemi

Giorgio Càeran rappresenta al meglio il numero due. Due Ruote, leggerete in questo articolo delle sue avventure per il mondo con la Gigia, la sua straordinaria 200 Rally, sogno di tanti giovani degli anni Settanta. E rappresenta bene anche il due dei suoi piedi che hanno calcato come le due ruote della Gigia tante parti del mondo come le Indie e Santiago. Ecco la storia che mi ha raccontato.

Giorgio Càeran, insomma, è quell’autentico viaggiatore capace di incarnare al meglio le storie di viaggio e di viaggiatori, di chi ha esplorato l’orbe terracqueo donando agli altri il fascino dell’oltre e di quell’ignoto che, stramaledetta globalizzazione, non esiste più. Se col viaggio di massa ha finito per prevalere l’omologazione in stile fast-food, con Giorgio Càeran prevale quel tipo di viaggi che fior di narratori hanno saputo raccontare. Basta leggere le risposte a questa intervista per rendersene conto. Buona lettura.

Il film “Easy Rider – Libertà e paura”, uscito nel 1969 (quando io avevo 17 anni), ha avuto una grossa importanza sulle mie scelte giovanili: m’immedesimavo in sella a una di quelle due moto chopper e guidare verso nuovi orizzonti. Un veicolo a due ruote, qualunque fosse, lo vedevo – forse un po’ ingenuamente – come un segnale di libertà e ciò era in sintonia con quanto scriveva Robert Maynard Pirsig in “Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta”:

«Se fai le vacanze in motocicletta le cose assumono un aspetto completamente diverso. In macchina sei sempre in un abitacolo; ci sei abituato e non ti rendi conto che tutto quello che vedi da quel finestrino non è che una dose supplementare di TV. Sei un osservatore passivo e il paesaggio ti scorre accanto noiosissimo dentro una cornice. In moto la cornice non c’è più. Hai un contatto completo con ogni cosa. Non sei più uno spettatore, sei nella scena, e la sensazione di presenza è travolgente. È incredibile quel cemento che sibila a dieci centimetri dal tuo piede, lo stesso su cui cammini, ed è proprio lì, così sfuocato eppure così vicino che col piede puoi toccarlo quando vuoi – un’esperienza che non si allontana mai dalla coscienza immediata.»



Mi piace cavalcare il vento, libero in quello spazio speciale che ancora rimane all’essere umano (soprattutto adesso, nell’era della “globalizzazione”). Ci sono cose che desideriamo tanto, forse ignorandone il motivo profondo. L’irreale Kathmandu, la mitica India: due obiettivi e due sogni di tanti giramondo degli anni Settanta del secolo scorso, e di una generazione cresciuta nel sogno del “viaggio”. Niente di straordinario, la via delle Indie; niente di straordinario l’averla percorsa in ‘Vespa 200 Rally’. Forse è un po’ fuori dell’ordinario, invece, che io abbia realizzato la mia fuga da casa con uno scooter di quattro anni acciaccato e protagonista, l’estate precedente, di un viaggio a Capo Nord… con l’incidente sulla strada del ritorno incluso.

Sono venuto al mondo nel 1952, ossia sette anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale e la televisione italiana non era neppure nata. In quegli anni c’era parecchia povertà diffusa, ed io sono nato in provincia di Como… figuriamoci chi viveva nel meridione dove lì si stava peggio. In casa non c’era granché e ciò che c’era doveva bastare, senza discussioni. Punto. Dopo aver accennato alla sceneggiatura che fa da contorno, deduco che i miei viaggi in Vespa risalgono agli Anni Settanta dell’altro secolo, perciò sono datati: con la stessa “Vespa 200 Rally” andai sia a Capo Nord sia in India e in Nepal. Pensando ai grandi lambrettisti e vespisti che hanno fatto mitici viaggi, il mio pensiero volge al passato e metto in second’ordine l’epoca attuale. Ai giorni nostri, è inutile girarci attorno, si viaggia più agevolati rispetto a decenni fa. Io ritengo che il principale cambiamento tra i viaggi odierni e quelli di quando li feci più di quattro decenni fa è la tecnologia con internet, collegamenti satellitari, smartphone, navigatori GPS, Google Translate sul telefonino o su tablet Android, e via dicendo. È una grossissima differenza, come lo sono anche le migliori condizioni delle strade maestre e l’evoluzione nel campo fotografico passando dalle romantiche diapositive “Fujicolor 100 Iso (ex Asa)” e “Kodachrome 64” alle attuali foto digitali. Le foto, infatti, si fanno con facilità e sono visibili subito – in diretta – in ogni parte del mondo. Tutte cose che una volta erano del tutto inimmaginabili. Io sono fermo all’epoca pionieristica antecedente a internet, a quando i viaggi non erano dettati dalla moda, a quando le strade trasmettevano avventura e non erano comode come quelle odierne, a quando gli itinerari da percorrere si scrutavano soltanto sulle cartine stradali, a quando era complicatissimo voler telefonare, a quando si usavano i traveller’s cheques.



Ho viaggiato in Vespa quando ero giovane, ma c’è chi abbia iniziato a viaggiare in Vespa quasi in età da pensione (o addirittura in pensione), giacché ognuno ha le sue tempistiche: c’è chi inizia da giovane a fare certe cose e chi tre decenni dopo… non siamo tutti uguali. A un certo punto io ho sentito l’esigenza di cambiare per non annoiarmi, ma c’è chi riesce – bontà sua – a non annoiarsi mai nel viaggiare con la Vespa anche dopo mezzo secolo. Poi c’è da aggiungere un’altra questione: quando ero giovane la Vespa non era un fenomeno sociale, mentre adesso sì… e parecchio. E, si sa, se oggi si sta dietro a certe tendenze non si può rinunciare alla Vespa… perché fa tendenza, cosa che ai miei tempi non era così. Io, invece, dalle mode ne sono sempre stato alla larga: sono asociale?

Adesso c’è un’altra cosa in più rispetto a quaranta/cinquant’anni fa: il narcisismo mediatico molto forte, che rasenta l’autocelebrazione. Ma alla fin fine, che cos’è un viaggio vespistico? Non è un tentativo di afferrare la luna dal pozzo, ma è alla portata di tutti anche perché oggi non è più possibile definirlo “eccezionale”. Si stia attenti a non esagerare con l’autoincensarsi per le proprie imprese su due ruote: consiglio di tenere un profilo basso. Perché inorgoglirsi, quando siamo mortali? Ogni tanto sarebbe utile porsi questa domanda, anziché esaltarsi per il semplice fatto di essere giunti a Capo Nord in Vespa, un’escursione possibile a chiunque giacché non è affatto proibitiva e lì ormai ci vanno in tantissimi… semmai è più difficile trovare il vespista che non ci sia mai andato che il contrario. Quando leggo commenti trionfali (mitico, numero 1, grandissimo, eroe…) in riferimento a chi sia arrivato a Capo Nord, provo una irrefrenabile tenerezza e mi chiedo: sarà mica andato nelle viscere al centro del mondo? Stiamo con i piedi per terra, che è meglio, dando il giusto peso alle cose e alle situazioni: l’esagerazione alla lunga puzza.

Penso che raggiungere certi traguardi soltanto per dimostrare la propria bravura è una vittoria misera che porta poi a essere condannati nell’aderire per sempre a una falsa immagine di sé stessi, ossessionati dal timore che qualcuno lo scopra. Nel fare certi viaggi rocamboleschi non si deve dimostrare niente a nessuno, ma vanno affrontati innanzi tutto per appagare (e placare) le proprie esigenze interiori. Condivido appieno ciò che ha detto Lorenzo Franchini: «Per come la vedo io ultimamente il ‘problema’ non è tanto la meta che conta, che uno è libero di poter andare a Capo Nord o a Roccacannuccia, ci mancherebbe, piuttosto andarci non per il piacere di andarci ma per dimostrare agli altri di esserci andati. Che poi, uno normale smette di misurarsi il pisello col righello quando finisce le elementari, poi ci sono quelli che a cinquant’anni son sempre li che si menano il righello ogni volta che montano in Vespa.»

Quando penso ai miei solitari viaggi in Vespa ricordo l’osare di più ogni volta che ne finiva uno: per esempio, nel 1972 con un vecchio ‘vespino 50’ andai a Passo Sella, Alta Valmalenco e dintorni. L’anno successivo, con un altro vespino della stessa cilindrata ma con qualche anno in più, feci il giro d’Italia senza però andare in Sicilia. Ricordo solo che al 4° giorno arrivai a Reggio Calabria. Poi venne il viaggio a Capo Nord e a quel punto ritenni che era giunta l’ora di fare il grande salto: la fase preliminare era finita, sentivo che ero alla ricerca di altri stimoli. E così venne il viaggio in India. Quest’ultimo viaggio è nato in maniera graduale, alzando sempre di più l’asticella delle esigenze.

Riguardo alle tappe e ai chilometri giornalieri del viaggio per Capo Nord (nel 1976) che cosa devo dire, sennonché ero instancabile? In quel viaggio con la ‘Vespa 200 Rally’, la mia prima tappa è stata di 924 chilometri (giungendo a 63 km da Fulda, in Germania), e il 2° giorno ero già in Svezia (13 km dopo lo sbarco a Helsingborg del traghetto, per un percorso sul suolo stradale di 857 km). Insomma, ci davo sotto.  Il 3° giorno ero arrivato a Stoccolma. Ecco le altre tappe, a cominciare dalla 3ª; km 580 (Stockholm); km 585 (km 12 da Umea, in Svezia); km 711 (km 87 da Sodankyla, in Finlandia); km 713 (Nord Kapp, 6ª tappa, in Norvegia); km 186 (vicino ad Alta, in Norvegia); km 230 (Nordreisa, in Norvegia); km 342 (km 60 circa da Narvik, in Norvegia… e poi capitò il pauroso volo nel vuoto). Infatti, dopo 5.128 km di mototurismo ho subìto un incidente al quale sono seguiti dieci giorni di ricovero ospedaliero a Narvik, nel Circolo Polare Artico, inconveniente che purtroppo ha interrotto la mia escursione che sarebbe proseguita verso il periplo del Mediterraneo come avevo in programma. La media giornaliera fino all’arrivo a Capo Nord è stata di 728,33 km, dormendo sempre all’addiaccio dentro il sacco a pelo, come del resto feci anche nei due precedenti giretti in Italia con i ‘vespini 50’.

L’andatura del successivo viaggio asiatico – sempre con stessa Vespa (la Gigia) –, da domenica 21 agosto 1977 a giovedì 20 luglio 1978, è invece calata, passando dalla velocità di crociera di 80 all’ora ai 70 anche perché le condizioni stradali erano assai diverse. In quest’altro viaggio avevo percorso in totale 23.084 chilometri, ed era durato 334 giorni alla volta di Delhi, Kathmandu, Calcutta (ufficialmente Kolkata, dal bengalese), Bombay (l’attuale Mumbai), Delhi e ritorno a Cermenate. Ho fatto 59 tappe effettive di viaggio, delle quali 22 con percorrenze superiori ai cinquecento chilometri pro die, e la tappa più lunga di questa avventura capitò in Turchia, nel tratto da Tatvan a diciassette chilometri prima di Osmaniye: 687 chilometri. Dopo aver attraversato la steppa e con l’aumento del caldo, man mano che mi spingevo a sud forse mi ha dato di volta il cervello: alla mia collezione d’imprudenze mancava il brivido dei viaggi notturni, sprovvisto come ero di lampadine al fanale posteriore. Esattamente due anni prima, alle quattro del mattino, e con il favore del sole, toccavo Capo Nord: forse è stato per questo, per essere ancora in viaggio alla stessa data e quasi alla stessa ora, che ho preso questa decisione poco sensata e che in ogni caso non consiglio di ripetere. Alle tre del mattino circa mi ero fermato per la notte non pensando stavolta di mettermi al riparo, sostando ai margini della carreggiata e dormendo nel mio sacco a pelo infischiandomene del continuo via vai di camion e torpedoni. Una tappa davvero lunga, considerato il fondo stradale spesso problematico e con innumerevoli buche.



– La seconda tappa per lunghezza, è stata quella del 28 giugno da Tehran a Tabriz (in Iran): 678 chilometri.

La terza tappa coincide con la ripresa della seconda parte del viaggio: il 15 aprile, 629 chilometri da Khoy a Takestan (in Iran).

La quarta tappa fu quella del 22 agosto dell’anno precedente (il 1977) in Jugoslavia: 623 chilometri, da 13 chilometri da Ljubljana – capitale della Slovenia – a poco più di duecento da Nis.

E così via…

Va detto che in Italia prima di me ci fu soltanto Roberto Patrignani a fare un viaggio in Vespa fuori dall’Europa, su lunghe percorrenze. Anche se ci sarebbe da citare Andrea Costa, nato nel 1957 a Genova ma adesso residente a Milano, che nel 1976 fece un viaggio negli Stati Uniti d’America, da New York a San Francisco, con una ‘Vespa 200 Rally’ messa a sua disposizione, lì sul posto, addirittura dalla Piaggio che la modificò per gli USA: invidiabile! È vero, Costa pure lui è un grande… seppure le strade degli Stati Uniti d’America siano assai diverse da quelle asiatiche o africane, soprattutto in quegli anni. Il suo viaggio è stato di 5.509 chilometri, quasi come andare da Gibilterra a Capo Nord (entrambi i casi per solo andata, come d’altronde ha fatto Costa). Lui, assieme a Giuseppe Pizzo e a Roberto Pacor, è stato chi ha avuto più fiducia in me in occasione della 1ª edizione del mio ultimo libro.

Al di là di tutto, ricordo che nel novembre del 1976 andai a trovare Roberto Patrignani nella sua casa a Mandello del Lario per comprare due suoi libri, compreso “In Vespa da Milano a Tokyo”. Con una ghiotta visuale sullo sottostante stabilimento della ‘Moto Guzzi’ gli esposi la mia idea di andare in India l’anno successivo, utilizzando la stessa ‘Vespa 200 Rally’ con la quale andai a Capo Nord e che in quel momento l’avevo posteggiata fuori dal cancello di casa. Lui volle vederla, dopodiché mi disse una cosa che ancora oggi rammento spesso: «L’importante è che non ti limiti solo a sognarlo, questo viaggio.» Di getto gli risposi che io preferivo sognare cose alla mia portata, perché vivere sognando a occhi aperti è inutile: bisogna cercare di realizzare ciò che si desidera se davvero lo si desidera… affinché si eviti che la luna diventi un sogno per chi, in realtà, non ha sogni. E quel viaggio verso l’India non era la Luna, ma una cosa fattibile. A queste parole, lui mi guardò con un’aria perplessa… e chissà che cosa pensò. Forse lì per lì devo essere stato un po’ troppo sicuro di me, e quindi davo l’aria di non considerare le difficoltà su ciò che mi accingevo a fare. Inconsciamente non le soppesai per non avere troppa ansia addosso. Gli alibi non mi piacciono. Preciso che da Patrignani non ci ero andato per avere consigli sul viaggio che volevo fare, non era il caso, era più altro il piacere di parlare con una persona che ammiravo per ciò che ha compiuto, questo sì.



Di quel giorno ricordo che accanto a due cani maremmani – buonissimi – c’era un bambino di tre anni, che gironzolava lì attorno: era il figlio Franco (che poi conobbi a Salsomaggiore Terme, il 16 febbraio 2019). Da Roberto Patrignani andai altre tre volte, l’ultima della quale nell’autunno del 1978. E poi basta. La penultima volta che ci andai, però, fu giovedì 20 luglio 1978, nel mio ultimo giorno del viaggio per l’India. Ancora prima di rientrare a Cermenate, nel mio paese nativo distante una cinquantina di chilometri da Mandello del Lario, con la Vespa carica di polvere e di 23mila chilometri volli ringraziare Patrignani per gli incoraggiamenti che mi ha dato prima della partenza, recandomi quindi a casa sua, ma purtroppo non lo trovai perché sua moglie disse che in quei giorni lui era a Parigi. Roberto Patrignani ed io apparteniamo al passato, a un mondo romantico ormai scomparso. Dire se fosse meglio allora o meglio adesso, come sempre porta lontano.

La mia sistemazione dei bagagli s’è ispirata a quella di Roberto Patrignani, con l’ovvia differenza che il mio è stato un lavoro artigianale e non impeccabile. Tuttavia l’idea è la stessa e ho anche notato che oltre al sottoscritto non ho visto nessun altro voglioso di imitarla, tranne Fabio Cofferati che l’ha copiata (con qualche leggera licenza d’interpretazione) in occasione del suo viaggio – nel 2021 – in Russia, purtroppo con l’impossibilità di accedere in Giappone. Sempre prendendo a modello la Vespa di Patrignani (la Vespa VBB2T 150 del 1963), da un fabbro io feci costruire un portapacchi personalizzato e, dietro lo scudo, ho fatto saldare – non in modo perfetto – un serbatoio ausiliare della capienza di sedici litri. Peccato che entrambe le mie cose alla lunga si ruppero, e non ne uscirono indenni dalle vibrazioni causate da certe pessime strade. I lavori artigianali non sono irreprensibili e non possono reggere il confronto con quelli aziendali: almeno in questo caso è stato così.

Mi si chiede se durante il viaggio in Asia avessi avuto la sensazione che arrivare nei posti più sperduti con questo gingillo (la Gigia), mi desse un’aria più simpatica, provvisoria e che questo alimentasse stupore tanto da attirare maggior benevolenza nelle popolazioni locali rispetto magari a una potente e tecnologica motocicletta. Non ci ho mai pensato, ma io credo che qualsiasi straniero che arrivi in posti sperduti con dei mezzi non abituali, carico di bagagli… beh, alimenti stupore. Riguardo invece alla simpatia nei miei confronti non saprei dire perché non ci ho fatto caso. Curiosità e benevolenza della gente del posto credo che vadano al di là del veicolo usato, bensì nasce dall’insieme di tutto: persona, bagagli e veicolo.

Io non so se lo sia o meno un punto di riferimento per i vespisti e per i viaggiatori (soprattutto moderni), tenendo conto che i miei viaggi all’avventura risalgono a un’epoca innovativa e non diffusa su vasta scala. In quegli anni che cosa mi spingeva a portare delle ruote provviste di pneumatici 3,50×10 verso strade polverose, nei posti più sperduti del pianeta? La voglia di cambiare, di mollare tutto (lavoro, amicizie e cose simili) e partire senza itinerari troppo programmati, e senza fare sapere a casa dove mi trovassi. C’era la ricerca di libertà, voglia di emozioni forti, passione e perfino incoscienza… ma non solo. C’era, soprattutto, la voglia di rompere la monotonia dei giorni che scorrevano simili l’un l’altro. No, non era quella routine che volevo… e così iniziai a desiderare paesaggi lontani ed esotici, dando ascolto al mio carattere ribelle.



Volevo partire senza però dare dei punti di riferimento su dove mi trovassi: mai e poi mai una cosa simile, perché altrimenti che “fuga” sarebbe? Se penso che negli undici mesi del mio viaggio alla volta dell’India feci una sola telefonata a casa, litigandoci pure… è tutto detto. In fondo quella mia partenza è nata sì per una sete di avventura, ma è stata soprattutto una fuga dalle mie paturnie: in quell’epoca non stavo bene con me stesso, con gli altri, con i familiari, con tutti… e quindi ero attratto dalle imprese folli, avevo bisogno di fare cose diverse e insolite per frenare la mia irrequietezza.

Cercavo di buttarmi a capofitto nelle difficoltà, pensando così di calmare il mio spirito ribelle: è stata questa la base per la mia partenza. Ci sarebbe da sviluppare un lungo discorso, ma potrei sbrigarmela così: alla base di tutto, il mio girovagare nasceva da una voglia matta di fuggire. Aggiungo, in maniera sintetica, che quel viaggio verso l’India è stata la mia salvezza: frequentavo compagnie, chiamiamole “agitate e fuori dagli schemi”, che negli anni successivi hanno poi pagato caro, sulla propria pelle, il conto alla vita. Tra di loro qualcuno non c’è più, vittime di scelte sbagliate che io per fortuna ho evitato grazie ai viaggi ‘on the road’. Eh, già; qualche mio ‘vecchio’ amico è morto per un’overdose, per imprevisti assurdi, per litigi finiti male; e anche per cose che possono capitare a chiunque, come incidenti stradali e malattie.

Durante i miei viaggi avrei voluto fare di più, ma non ho osato farlo fino in fondo. Quante volte ero combattuto tra il fermarmi a lungo in certe località visitate e il timore di compiere uno sbaglio! A distanza di decenni sono giunto alla conclusione che lo sbaglio è stato non ascoltare la mia vocina interiore, che imprecava di non avere fretta a tornare a casa preferendo casomai stare parecchio tempo qua e là senza tabelle da rispettare. È vero: in certi momenti e in certi luoghi avrei preferito fermarmi per almeno cinque o sei anni… e purtroppo non ce l’ho fatta perché, a volte, dentro di me avvertivo la necessità di tornare a casa mia ogni tanto. Come sarebbe stato bello, però, impostare la vita in un altro modo. Avrei dovuto osare di più? Avrei dovuto fare come Ilario Lavarra? Dal 16 settembre 2017 Ilario sta facendo il giro del mondo in Vespa, rallentato però dal Covid 19 che l’ha bloccato per quindici mesi (abbastanza statici) tra Iran e Turchia; adesso sta girando qua e là, rendendo quindi un’incognita il ritorno. Le cose belle richiedono tempo.

Vabbè; poi ho fatto altre esperienze di viaggio, pure in compagnia di mia moglie, ma senza più il mordente di “quei viaggi”. Ero un viaggiatore impenitente, mentre adesso sono diventato anch’io un turista: quasi un pantofolaio. Il fatto, però, merita una spiegazione, cominciando proprio dalla fine. Nel 2003, infatti, sul litorale teramano ho acquistato un appartamento. Lì attorno ci sono dei paesini caratteristici, ma qualche giramondo puritano può storcere la bocca: «sì, sono posti belli, ma l’India è tutta un’altra cosa!» Per decenni ho assaporato forti emozioni che, è vero, or ora non posso neanche tentare di eguagliare. Tuttavia, io ritengo che la vita sia fatta di momenti e di atti diversi, come un romanzo a puntate.

Eppure, nella nuova veste di pantofolaio per quattro estati consecutive, a partire dal 1998, con moglie e la figlia piccola ho fatto vita di campeggio in Corsica. Dapprima, quando la figlia Chiara aveva appena due anni, andammo nel ‘camping Le Damier’ di Pianottoli (23 km da Bonifacio) e nelle tre estati successive fu la volta del ‘camping de l’Ostriconi’ (ubicato a una dozzina di chilometri da L’Ile Rousse, in località Palasca). Ogni volta ci restammo per quattro settimane, stando sempre sotto una piccola tenda igloo. Un’esperienza unica, garantito. In quel periodo, il 7 e il 14 agosto 2000 mi ero concesso delle camminate costeggiando il litorale fino a Saint Florent, per una cinquantina di chilometri. La 1ª volta con Marna Risani, una collega di Marika (in dieci ore di marcia e tre ore e quarantacinque minuti di sosta a Saleccia), e la 2ª da solo (in nove ore e dieci minuti di marcia e tre ore e venticinque minuti di sosta sempre a Saleccia).

Con Marika, sia prima sia poi da sposati, si è andati anche in Indonesia, a Mosca, nelle Filippine (in viaggio di nozze), a Petra, in Grecia, in Portogallo (nel 2019). In Portogallo è stato un felice ritorno; sei anni prima ero con mia figlia in occasione del Cammino di Santiago, e stavolta ci sono andato con mia moglie. Ma ancor prima di diventare genitore nel luglio 1994 si era fatta un’altra briosa vacanza con Marika, in sella a una vecchia “Vespa PX 200E” – stavolta di color bianco – e avevamo una altrettanto vecchia tenda canadese biposto (oggi roba da museo).

Ho pubblicato sei libri: “La via delle Indie in Vespa” (1983, 224 pagine – Edizioni Càeran, con la prefazione di Armando Boscolo che all’epoca era Direttore della rivista ‘Motociclismo’); “Giramondo libero – In viaggio con la Vespa o con lo zaino” (2006, 384 pagine – Giorgio Nada Editore, con la prefazione di Sergio Stocchi); “È meglio che vada sulle vie del mondo – Dalla Vespa allo zaino, dal sacco a pelo al trolley” (2020, 540 pagine – Aletheia Editore); “Una Vespa, uno zaino, un sacco a pelo, un viaggio” (2020, 280 pagine – Libreria Editrice Urso); “Papà, andiamo a Santiago? – Padre e figlia sul Cammino Portoghese” (2021, 160 pagine tutte a colori – Libreria Editrice Urso, con la prefazione di Luca Gianotti, guida di viaggi a piedi e tra i fondatori della ‘Compagnia dei Cammini’); “Mezzo secolo rincorrendo il mondo – Nei viaggi la Vespa fu il primo amore… poi venne il resto” (2022, 552 pagine – Libreria Editrice Urso, con le prefazioni di Riccardo Costagliola, Presidente ‘Fondazione Piaggio’ e quindi del ‘Museo Piaggio’, e ancora di Luca Gianotti); e la 2ª edizione  di “Mezzo secolo rincorrendo il mondo – Nei viaggi la Vespa fu il primo amore… poi venne il resto” (2023, 568 pagine – Youcanprint).



Sia “Giramondo libero – In viaggio con la Vespa o con lo zaino” sia “Una Vespa, uno zaino, un sacco a pelo, un viaggio” sia anche “Mezzo secolo rincorrendo il mondo – Nei viaggi la Vespa fu il primo amore… poi venne il resto” li ho impaginati io, con la differenza che per il primo ho fatto tutto tranne la copertina… mentre per il secondo e il terzo pure quella. Anche se per la copertina dell’ultimo è stato determinante l’aiuto concreto di mia moglie Marika (ex grafica editoriale).



Riguardo a “Papà, andiamo a Santiago? – Padre e figlia sul Cammino Portoghese”, Francesco Urso, l’editore di Avola (in provincia di Siracusa), di sua iniziativa e senza che io lo chiedessi, nel marzo 2021 ha deciso di pubblicarmelo cartaceo per intero a sue spese. Va detto che nel novembre 2014 di questo libro ne avevo fatto un e-book, di cui però ho un pessimo ricordo: un’esperienza che non vorrò più ripetere. Stavolta, invece, la musica è stata ben diversa, con l’impaginazione interna tutta a colori: è stata fatta da mia moglie nel 2014, solo che all’inizio del 2021 l’ho ritoccata io giacché è stato cambiato il formato per adattarlo alla nuova esigenza, passando da cm 14 x 21 a 15 x 21. È una bellissima impaginazione, fidatevi. Copie di questo libro non ne ho e vanno chieste solo all’editore.



La 2ª edizione di “Mezzo secolo rincorrendo il mondo – Nei viaggi la Vespa fu il primo amore… poi venne il resto”, stampata nel giugno del 2023, già di per sé era il mio lavoro fatto meglio. In seguito, metà anno dopo (ossia a dicembre dello stesso anno), ho fatto una riedizione di essa diventando ancora molto più bella e aggiungendo altre 4 pagine. La riedizione del dicembre 2023 è in assoluto il mio più bel libro pubblicato: l’ho modificato tutto, rivoltandolo come un calzino. Come a volte capita nel mondo editoriale, dopo la prima sfornata ci ho lavorato ancora tanto – caratterialmente sono incontentabile e voglio sempre il massimo da me stesso – e il risultato, lasciatemelo dire, è diventato fantastico: me la godo, abbiate pazienza ma… quanno ce vo’ ce vo’. La riedizione di fine anno è migliorata notevolmente rispetto al lavoro svolto all’inizio dell’estate, diventando il mio lavoro editoriale uscito più ben fatto in assoluto: ora è il mio fiore all’occhiello. Del resto è solo questa pubblicazione che, adesso, m’interessa di più diffondere… mentre gli altri libri appartengono al mio passato di cui me ne sono distaccato, disinteressandomi della loro sorte (e sono perfino disposto a regalarli, a patto però che mi si acquistino le copie rimaste di quello pubblicato a giugno, invece per quello con 568 pagine le modalità sono spiegate nel Blog omonimo): in concreto c’è stato un aumento di pagine, passando dalle 564 dell’estate alle 568 della riedizione dicembrina.

“Si è giovani finché si è capaci d’imparare”, dice un vecchio detto che io ho preso alla lettera perché amo imparare… tuttora. Non penso di dire una cacchiata quando sostengo che oggi io scriva meglio (e non di poco) rispetto ad anni fa. Sono dell’idea che la mente vada sempre tenuta in allenamento, ed è un grosso errore smettere di farlo dopo il percorso scolastico perché altrimenti si rischia che poi affiori qualche nuova lacuna che magari prima era sconosciuta. La mente è come il corpo umano: entrambe le cose se non sono stimolate s’impigriscono e perdono di efficienza.

Tuttavia, c’è una nota dolente: la cosa anomala è che tra i miei libri pubblicati quest’ultimo (in particolar modo la riedizione) è – come ho detto – senza alcun dubbio il migliore… eppure è nel contempo quello che vende di meno: me ne faccio una ragione. Dipende forse dall’eccessivo numero di pagine e il conseguente aumento di prezzo rispetto alla 1ª edizione? Può darsi, ma non solo. Sì, lo so, per evitare la linea fallimentare dovrei promuoverlo qua e là come fanno tutti, ma io sono un cuor contento e non mi va di sbattermi troppo, anche perché in queste dinamiche sono sempre stato uno svogliato. E rivolgermi ai “Vespa Club”?

Non fa per me essere coinvolto in certi eventi aperti al pubblico, dove si intuisce subito che lì nessuno, tra i possibili acquirenti, spenderebbe oltre i 22 euro per un libro. Lì va bene per chi ha da proporre un libro che tratta esclusivamente della Vespa, diventando quindi un argomento incollante tra i vespisti presenti. Per me è diverso, perché il mio libro parla non solo della Vespa ma di tante altre cose e quindi può interessare di meno nei vari Vespa Club. Diciamoci la verità: come potrei proporre un libro di 34 euro, scontandolo magari a 25 o a 24? Lì non è il mio posto adatto, ed è per questo che io veda con più ottimismo altre soluzioni. Dovendo eventualmente scegliere, nel mio caso penso che mi convenga di più fare la presentazione in una bella libreria o in una biblioteca, anziché in un locale adibito a ristoro o pizzeria: le mense e i banchetti sono l’ideale per chi ha da proporre libri con i prezzi medio-bassi, per me invece sarebbero un fiasco.

È vero che gli appassionati esulano da questo cliché, non facendosi condizionare dai costi, e sono disposti a spendere anche cifre importanti superiori ai 30 o 50 euro, ma di certo è difficile trovare queste persone nei Club dove, nella gran maggioranza delle situazioni, solo quando si chiedono cifre assai abbordabili si coinvolgono perfino i non appassionati, gente che nella normalità non avrebbe mai comprato alcun libro. È una questione di prezzi di copertina: quelli con le cifre basse li comprano un po’ tutti, mentre quelli con i prezzi più alti li prendono solo gli appassionati ed è ovvio che sia così. E questo mio libro è tagliato fuori in partenza in tanti posti, proprio perché non è economico. In conclusione non ho tutta questa smania di fare le presentazioni del mio libro. È chiaro che da parte mia sia sbagliatissimo e controproducente comportarmi così, anche perché i libri si vendono se si promuovono… altrimenti nisba. Non si vende ciò che non si mostra, e se non si mostra non si ha mai un tornaconto sia economico sia d’immagine: è risaputo.

Evitando le promozioni aperte al pubblico, quelle accompagnate da offerte culinarie, è inevitabile però che alla resa dei conti deduca che le vendite dell’ultimo mio libro – pubblicato nel 2023 – non stiano andando bene… essendo ridotte all’osso, anche se mi auspico che alla lunga le cose migliorino. Mi pento quindi di averlo fatto? Decisamente no, giacché non potrò mai pentirmi di aver realizzato una cosa cui ci tenevo tantissimo: d’altronde i soldi vanno e vengono e preferisco spenderli così, tenendo attiva la testa, anziché farlo oziando al bar. Pertanto, seppure sono in perdita lo rifarei di nuovo, in quanto desidererei che quest’ultimo lavoro diventi – mi si permetta la baldanza – il mio lascito quasi culturale. Sono da ricovero? Boh.

Adesso rispondo a una domanda che mi è stata fatta da più persone, ossia perché un Lettore dovrebbe essere ispirato a comprare questo libro? Oltre al tema dei viaggi (quello in India e il Cammino di Santiago compresi) faccio pure delle analisi, che io penso possano essere una miniera d’informazioni accompagnati, mi auspico, da una buona lettura. Questo libro non parla solo di viaggi, ma anche di altro: infatti, c’è un capitolo finale in cui c’è perfino un racconto filosofico per adolescenti, che potrebbe incuriosire. Non solo, oltre ai racconti di esperienze di viaggi, che sono pur sempre il piatto forte, in queste pagine ho voluto rimarcare una mia filosofia di vita che va al di là del girare fisicamente il mondo, bensì vuole essere pure un mio viaggio introspettivo.

E adesso? Beh, con i libri ho chiuso: non ne pubblicherò altri… però invito chiunque a vedere due miei Blog, il più vecchio e il più recente: “Viaggi, libri e curiosità” ( https://giorgiocaeran.blogspot.com/ ) e “Mezzo secolo rincorrendo il mondo” (quest’ultimo ha il titolo omonimo del mio 6° libro: https://caeran-libro-da552pagine.blogspot.com/ ).

La “Honda CB 350”, degli Anni Settanta dell’altro secolo. In ogni modo io partivo utilizzando ciò che già avevo, non pensando affatto di comprarmi un preciso motociclo per affrontare qualsiasi mio viaggio: la teoria della coperta corta funziona sempre, perché se non ce n’è… non ce n’è. Mi servivo della ‘Vespa 200 Rally’ perché l’avevo comprata a Cantù, il 2 agosto del 1973,da Elio Corbetta (nel negozio Piaggio che stava in via Ettore Brambilla 16 e ora non c’è più, essendo morti prima il padre e poi il figlio che gestivano il negozio).È ovvio che se invece al momento avessi avuto una moto sarei partito con quella e di certo non ne avrei comprata una apposta per il viaggio: si parte con ciò che già si ha, almeno per me è stato così e in questi casi non ho preferenze determinanti, se anziché una Vespa avessi avuto pronta un’altra moto la scelta sarebbe stata quella.

La ‘200 Rally’ mi costò 283.000 lire, a cui c’erano da aggiungere le spese per gli accessori portando il totale a 363.600 lire (oggi è l’equivalente di 187,47 euro): era di color Corsa Piaggio 806 (nel 1978 la ‘Max Meyer’ ha poi modificato il nome del colore con il codice “P2/5”). Parlo della Gigia, ma in concreto che Vespa era la mia? È un modello prodotto nel 1972 (telaio numero VSE 1T 008064); fa quindi parte della prima ondata di ‘200 Rally’, con pulsante di massa sotto la sella; in seguito ci furono alcune varianti tecniche e non solo. Io ero piuttosto dubbioso se comprarla con il miscelatore automatico, perché era una novità e non si sapeva se andava bene o no. Nel 1979 terminò la produzione di questo modello; io sono dell’idea che le successive “PX” (fatte conoscere nell’ottobre 1977, mentre io ero fermo in Iran, e uscite di produzione nel 2007) siano state inferiori.

Il viaggio vespistico in India, logicamente, anche perché durò undici mesi. In riferimento soprattutto a quel viaggio, mi capita tuttora di leggere qua e là dei commenti da parte di motociclisti con frasi come «dev’essere bello non avere un cazzo da fare nella vita». Mi si rizzano i capelli a leggere poi Lucio S. che scrive: «Per viaggiare ci vuole anche una certa disponibilità economica, questo è fuori dubbio. Non raccontarmela – rivolgendosi a me –, ho 62 anni e vado in moto da quando avevo 16 ho girato mezza Europa, complimenti per i viaggi che hai fatto, ma per stare via tanto, ci vuole tempo e cmq. soldi, a meno che non mangi aria, io purtroppo nella vita ho dovuto sempre lavorare e a parte le classiche 2 settimane di ferie non ho mai avuto tanto tempo.»

E poi c’è il signor Fabio G. che rincara la dose con questo (rivolgendosi pure lui a me):

«Bello lo spirito d’avventura, il partire sul cavallo dei propri calzoni (cit.) e sentirsi ribelli inside… ma per stare un anno con le palle al vento o sei ricco di famiglia, o comunque non hai bisogno di conservarti un posto di lavoro, che praticamente è la stessa cosa. Oppure vivi di sponsor, che è un’ottima alternativa, ma ti servono conoscenze o un certosino lavoro di contatti. Quindi sì: tutto bello, ma le favole teniamole buone per i nipotini alla domenica.»

E che dire di Gianfranco F., di un paesino con 4mila abitanti della provincia di Padova, che mi scrive: «Mentre tu giravi il mondo in Vespa, io lavoravo anche x te! E ho contribuito a far crescere l’Aprilia e da pensionato i prodotti per ‘after market Vespa’. Mia vecchia passione. Continua così, che sei sulla buona strada.»

  A questo signore gli ho risposto a tono: «Non devo niente a nessuno, e tu non hai lavorato per me. Io sono andato in pensione nell’aprile 2017 (all’età di 65 anni con 43 di contributi lavorativi – dilazionati in professioni varie, compreso il litografo –, quindi a ‘quota 108’… tanto per capirci). Io ho dato, mentre ne conosco tanti altri che hanno dato meno di me… pur non facendo viaggi. Per esempio, scopro che tu sei andato in pensione il 23 dicembre 2012, all’età di 61 anni, con 36 anni lavorativi… quindi a ‘quota 97’, e osi pure menarmela? Direi che possiamo chiudere qui l’argomento.»

E ce ne sono altri su questo andazzo: io vorrei avere a che fare con veri centauri, non con quelli della domenica. Intendiamoci, a volte può essere come dicono, ma non sempre è così. Non sono mai stato ricco (né io né la mia famiglia), e non ho mai utilizzato nessuno Sponsor. Mi licenziavo e partivo, senza programmi, senza sapere quando sarei tornato a casa. Ciò che davvero occorre è la determinazione e l’adattarsi a ogni cosa, compresi il mangiare quel che capita e il dormire all’aperto. Tutto il resto è superfluo. Non sopporto il modo superficiale e infantile di analizzare le cose: le solite scuse adottate da chi, in realtà, non vuole rimboccarsi le maniche e quindi rinuncia pigramente di andare… verso la scoperta del mondo. È vero che, come la si giri, una certa disponibilità economica occorra, ma assai meno di quanto si pensi. Perché? Semplicemente perché per viaggiare serve non abbuffarsi di desiderii: si rinuncia a delle cose che non reputo indispensabili, come uno smartphone di ultima generazione e così via, per far fronte ad altre che interessano di più. È chiaro, però, che se non si rinuncia a niente, o si rinuncia a poco, alla fin fine diventa tutto più complicato. Ma allora a questo punto pongo una domanda: «Che cosa davvero interessa?» Ognuno qui risponda come crede, ma che sia sincero. Di tutti i miei viaggi, e ne ho fatti un bel po’ in quattro continenti, non ho mai speso cifre folli… mai. Anche perché, se si vuole risparmiare, necessita uscire dall’Europa: si è disposti a farlo?

A me non piace rifare le stesse cose di cui so già come va a finire, perché non ci trovo gusto: sarebbe come rileggere lo stesso ‘giallo’ sapendo sin dall’inizio chi è l’assassino. Mi piacciono stimoli nuovi e perdo interesse per le repliche, per il copia e incolla. Forse sono fatto male, ma sono così. Con la Vespa le mie belle e ghiotte soddisfazioni me le sono prese, una vita fa, ma oggi cerco altro… come del resto ho sempre fatto, almeno così mi sembra, sin da quando ero giovane. Ripetermi non c’è pathos; se facessi per decenni le stesse cose avrei l’impressione di non vedere altri sbocchi, di trovarmi in un vicolo cieco, di ripetere gesti automatici e sempre uguali, di non essere quindi cresciuto: un rischio che non intendo e non ho mai voluto correre. Ho la voglia matta di cercare nuovi stimoli, nuove esperienze, nuovi imprevisti… tutto può essere – compreso l’eventuale utilizzo di un animale – fuorché ricalcare il passato, per non esserne imprigionato.

Sono dell’idea che ogni storia debba essere collocata nella sua giusta posizione e il Cammino di Santiago, per esempio, era una perla che mi mancava e perciò acquista la sua importanza per me, soprattutto per averla fatta a sessantuno anni, e ne sono contento di averla assaggiata con mia figlia. Del Cammino Portoghese (fatto nel 2013), sinteticamente dico che il puro percorso di 224 chilometri l’abbiamo coperto in dieci tappe, il resto è stata vacanza… soprattutto in Portogallo. Pur sapendo che è pur vero che ogni Cammino è una storia a sé e si differenzia dagli altri, io non ripeterò questa esperienza, come non ho ripetuto le precedenti che ho vissuto, cercando – per quanto mi sia ancora possibile – di rimanere fedele al mio spirito nomade rimasto… seppur ormai molto assottigliato. Se ci fosse un’opportunità oggi gradirei tantissimo volare sopra le Alpi in mongolfiera, oppure fare dei percorsi europei su un calesse e via dicendo… insomma sarei attratto da cose che non ho mai fatto. Eviterei, però, altri giri in Vespa o dei Cammini famosi… di cui conosco già le loro sfumature. Questo è il punto. In ogni modo sono tutti discorsi teorici e la clessidra anagrafica procede senza intoppi. Tutt’al più preferisco fare – in maniera concreta – delle camminate sul Gran Sasso o sulle montagne lecchesi, ma non quelle classiche troppo affollate di pellegrini: no, non è più il caso.

Eviterei pure i viaggi in autostop, giacché ne feci in Europa, nel Kurdistan turco, nel Sahara, in Patagonia, nella Terra del Fuoco (una cosa comunque da non prendere più in considerazione, sia per la mia età sia perché non è più il momento). Insomma, non ho mai voluto specializzarmi in una disciplina (sono stato un vespista anticonformista, per questo sono evitato da ciò che conta) e così cerco soltanto cose nuove, salute permettendo, poiché tutto ciò che ho già sperimentato mi diventa tedioso. In definitiva, e detto in sintesi, il mio concetto è che non voglio ripetermi: non più né Vespa né Cammini.

Ormai ai “viaggi tosti” non ci penso più: adesso faccio il turista, assieme a mia moglie, avendo tolto i panni del viaggiatore… che ho tanto amato nei decenni passati. Per di più attualmente ho una cagnetta: mai dire mai… dice un vecchio adagio. Chi l’avrebbe detto che, adesso ultrasettantenne, io abbia un cane? Ebbene, sì. Dal 29 dicembre 2022 ho Penny, un misto tra yorkshire terrier e meticcia, che ora ha più di otto anni e mezzo (essendo nata il 20 novembre 2015): viene da Edolo, in alta Valcamonica, da parte di una signora del posto – allora ottantottenne – che non ce la faceva più ad accudirla. Pertanto l’ha voluta mia moglie, ed io mi sono adeguato nonostante il mio dissenso.

È ovvio che poi io mi sia affezionato a lei, e le voglia un gran bene: mi è anche assai simpatica. È carina da vedersi (piace a tutti, anche perché è una coccolona) e pesa appena 7,1 chilogrammi. Se, però, l’avessi avuta anni fa col cavolo avrei fatto i miei viaggi spartani: o il cane, o i viaggi di un certo tipo… oppure trovare chi lo accudisce per uno o più mesi consecutivi, perché una cosa esclude l’altra. Adesso invece ho l’età giusta per avere anch’io un cane: d’altronde ognuno è diverso. Venerdì 17 febbraio 2023 mia moglie è diventata ufficialmente la proprietaria di Penny.

Il mio problema non è stato trovare una Casa Editrice, semmai è ciò che le gira attorno o che potrebbe contribuire e invece mi tratta come se non esistessi. Facendo un resoconto con ciò che ho avuto dal pianeta Piaggio-Vespa in un arco di tempo lungo quattro decenni, sia nella come nella 2ª edizione di “Mezzo secolo rincorrendo il mondo – Nei viaggi la Vespa fu il primo amore… poi venne il resto”, c’è la prefazione di Riccardo Costagliola (Presidente della “Fondazione Piaggio” e quindi del “Museo Piaggio”). Oltre alla prefazione cito Roberto Leardi (Presidente del “Vespa Club d’Italia”) che ha prenotato la 1ª edizione, inserendosi nella lista dei pre-acquirenti, con una copia sempre di quel libro. Va detto che si è trattata di una scelta personale e non dettata dal suo ruolo. E va bene lo stesso, anche se… basta, non c’è altro.



Mi si chiede come mai io non abbia avuto riconoscimenti da parte della Piaggio. Può darsi che non siano stati graditi gli intoppi tecnici descritti ne “La via delle Indie in Vespa”. Almeno questo è quel che penso che sia, altrimenti non so che cosa possa esserci d’altro. Certo, se così fosse potrei dire che io non avevo a disposizione una Vespa nuova o comunque messa a punto dalla stessa Piaggio, com’è successo a un bel po’ di gente. Se fossi partito con uno scooter nuovo senz’altro sarebbe stato più facile, ed è probabile che avrei viaggiato sul velluto, di certo senza tutte quelle noie meccaniche cui invece ho dovuto spesso far fronte. Nonostante questo, sono stato soddisfatto della ‘Vespa 200 Rally’, ritenendola adatta al tipo di viaggi da me fatti. Faccio gli elogi a una Vespa che, però, in Asia mi ha dato non pochi grattacapi anche se c’è da tener conto che ero partito da casa già con un mezzo non ben registrato.

Di inconvenienti ne ho avuti parecchi lungo il viaggio e non è filato tutto liscio, come invece avrei sperato. Per i miei viaggi mi sono affidato a meccanici pasticcioni che mi hanno costretto a partire con una Vespa già piena di acciacchi: ho scelto male, anzi malissimo. Piaggio o no, mi sarebbe bastato avere avuto una maggior fortuna nella scelta dell’officina meccanica e invece non mi è andata proprio bene. Nell’affidare la preparazione della Vespa per una meta così importante avrei dovuto scegliere meglio, ma forse incide anche il periodo a ridosso del mese di agosto… con l’aria di ferie sulla testa. È andata così. Un’altra buona soluzione sarebbe stata partire con un mezzo nuovo e con il rodaggio appena finito, ma non potevo permettermelo. Invece sono partito con uno scooter di quattro anni, vittima di un brutto incidente stradale e con una sistemazione meccanica approssimativa o mal fatta: è stata una sofferenza viaggiare così.

In ogni caso, poco più di cinque anni dopo la conclusione del mio viaggio, con l’amico e giornalista Luciano Baggioli nell’ottobre del 1983 andammo in treno a Genova, dove allora c’era la sede dirigenziale della Piaggio. Avevamo un appuntamento ottenuto con grosse difficoltà e solo grazie all’interessamento di Sergio Stocchi, amico del Presidente dell’Automobile Club Milano. Chiedemmo un aiuto per la mia iniziativa editoriale e proponemmo l’acquisto di alcune centinaia di copie del mio libro pubblicato cinque mesi prima. Piaggio le avrebbe poi distribuire in tutte le sue concessionarie (e anche nei “Vespa Club”), perciò non si sarebbe trattato di una cosa fantascientifica giacché la cifra non sarebbe stata impossibile. A Genova avevamo avuto la sensazione che le cose sarebbero andate a buon fine: belle parole, complimenti, la cosa è interessante ed è fattibile, eccetera… eccetera. Ma purtroppo il nostro progetto non andò in porto. Tornato a Milano, il 18 maggio successivo, proprio nel giorno del mio 32° compleanno, ricevetti un telegramma: «Spiacente comunicarle che, causa difficoltà budget, non possiamo intervenire come avremmo voluto.» Sfortuna? Mancanza di tempestività? Insensibilità da parte Piaggio? Forse mi sarei dovuto muovere in modo diverso, forse i tempi erano prematuri… ma mi rimase in bocca una grande amarezza.



Oppure potrebbe essere che, nel 1983, uno dei motivi che fece da freno era una proposta che girava nell’aria (diventata poi legge nel 1986) dell’obbligo d’uso del casco, per cui i produttori di motocicli temevano una diminuzione drastica delle vendite. Boh. Aggiungo che io sono un tipo scomodo, abituato a vivere indipendente… mente, e tutto ciò non crea buone premesse di avvicinamento.

Tuttavia, mi si permetta di notare come sono stato trattato ancora adesso (2022 e 2023), se si pensa che ho inviato delle email per ottenere una breve recensione del mio ultimo libro sulla rivista del “Vespa Club d’Italia” (guarda caso il suo primo numero fu pubblicato nell’anno della mia nascita), che ha la sua cadenza mensile e la data di uscita fissata al giorno 15 di ogni mese. Avrei apprezzato esserci tra quelle pagine, considerando di aver fatto qualcosa d’importante con la Vespa (seppur lontanissimo nel tempo e che comunque è raccontato anche nell’ultimo mio libro), eppure… nessuno mi ha risposto, come se io fossi un marziano. Sarebbe stata gradita una risposta, perfino negativa e motivata, piuttosto che un frustrante silenzio tombale. Diversi altri vespisti-viaggiatori-autori hanno avuto ben altra vetrina (perfino replicata), ma io no… forse perché non sono né fotogenico né accattivante? A quanto pare non piaccio proprio: né quarant’anni fa né oggi. Non busserò mai più alla loro porta: non vorrei essere invadente e inopportuno.



E al ‘Museo Piaggio’? Non fa parte dei miei programmi, anche perché ormai sono un ex vespista. Tutt’al più a Pontedera ci andrei per incontrare il caro Gennaro Rino De Pasquale (del “Vespa Club Lecce”): lì ci vive sua figlia e quindi potrebbe essere un nostro appuntamento. Nel Museo, invece, mi sentirei fuori posto nonostante che nella prefazione del mio ultimo libro Riccardo Costagliola concluda con queste parole: «Quando nel 2018 abbiamo inaugurato l’ampliamento del Museo Piaggio avevamo cercato Giorgio, volevamo che anche lui, grande mito di tutti i vespisti, partecipasse alla nostra festa ma per una sfortunata serie di coincidenze non ci siamo trovati. Lo abbiamo fatto in occasione della pubblicazione di questo libro ed io, oltre al piacere di aver trovato in lui un nuovo amico, credo ancora nel miracolo di potere prima o poi esporre nella nostra ‘Sala Vespa’ la sua ‘200 Rally’.» Ma il miracolo non ci sarà, perché la Gigia ora ha un nuovo proprietario, Fabio di Salsomaggiore Terme, ed io non ho più voce in capitolo.

C’è un’altra cosa curiosa: su Facebook mi capitò di essere coinvolto in un dibattito collettivo tra noi, diciamo un gruppo di decine di persone dove ognuno poneva per iscritto una domanda a un altro. E così mi arrivò dritta questa domanda interminabile e minuziosa: «Non so se hai notato che su Piaggio Vespa – Wikipedia’, al paragrafo ‘Traversate e raduni’ c’è un elenco di personaggi, di varie epoche, che hanno fatto viaggi importanti con una Vespa. Si parla di Giancarlo Tironi, studente italiano, che giunse nel Circolo Polare Artico; dell’argentino Carlos Velez che attraversò le Ande; di James P. Owen dagli USA alla Terra del Fuoco; di Santiago Guillen e Antonio Veciana da Madrid ad Atene (la loro Vespa per l’occasione fu decorata da Salvador Dalì, ed è tuttora esposta al Museo Piaggio); di Miss Warral da Londra all’Australia e ritorno; dell’australiano Geoff Dean che in Vespa fece il giro del mondo. Di Pierre Delliere, sergente dell’aeronautica francese, che giunse a Saigon in 51 giorni da Parigi, passando per l’Afghanistan. Ovviamente c’è spazio anche per gli immancabili Roberto Patrignani e Giorgio Bettinelli. Però, nel contempo, mi sorprende lo svizzero Giuseppe Morandi che percorse 6.000 km su una Vespa che aveva comprato nel 1948. Oppure Ennio Carrega che andò da Genova in Lapponia e ritorno in 12 giorni. C’è quasi di tutto ma… Giorgio Càeran dov’è? Eppure, considerando l’epoca del tuo viaggio, forse sarebbe giusto essere citato. Sei amareggiato per questo trattamento?»

Io risposi così, senza essere anch’io prolisso: «Ormai ci faccio il callo. Ti racconto un retroscena: in una mia recente presentazione editoriale un Direttore di una rivista motociclista scrisse che nei miei viaggi in Vespa io mi sia ispirato a Roberto Patrignani (cosa vera) e a Giorgio Bettinelli (cosa falsa). Che genio, questo Direttore, al quale sfugge che il primo viaggio in Vespa Bettinelli l’abbia compiuto quattordici anni dopo la conclusione del mio viaggio in India. Che un abbaglio così sia stato fatto da un giornalista che si occupi di moda, di canzoni, di cani e gatti, di calcio… ci sta, perché non è il suo ramo. Ma che a scriverlo sia un Direttore di una rivista motociclistica (nata nel 1987 in un paesino comasco), beh, mi cascano… eccetera, eccetera. Quindi perché mai dovrei meravigliarmi che io non sia citato su ‘Piaggio Vespa – Wikipedia’, quando circolano ‘esperti’ simili? Al di là di questa leggerezza, io penso che un deterrente contro la mia nomea positiva forse dipende dal mio essere troppo restio all’esposizione mediatica. Boh.»

Pensando a chi è stato determinante per la prima edizione del mio ultimo libro, la mia riconoscenza verso Mario Giachino – presidente dell’Associazione Sociale Culturale Strade da Moto – è assai forte e lo sarà per sempre. Quel libro non sarebbe nato senza la sua prenotazione alla cieca di 70 copie – in accordo con il vice presidente Pietro Stefani –, pertanto l’11 novembre 2022 ho accettato di partecipare alla presentazione, da lui organizzata nella “Libreria L’Ippogrifo” in Corso Nizza 1 (in pieno centro di Cuneo, a ridosso della Piazza Tancredi Galimberti).

Per pigrizia di solito – diciamo al 99% dei casi – rifiuto questi avvenimenti, ma stavolta era da accettare al volo. Comunque la serata si è conclusa a tavola nel migliore dei modi in un posto caratteristico a una dozzina di chilometri dalla città, tra le specialità locali e storie di viaggi in moto. Terminata la cena ho pernottato nell’ampia casa del generoso Mario Giachino, avendo accettato la sua ospitalità per una notte. È stata una piacevolissima esperienza… seppure sia stato imbarazzante che io non abbia mai pagato niente, perché ero l’ospite. Questa gita a Cuneo mi porta a riflettere sull’accettazione o sui rifiuti verso i non pochi inviti che ricevo, soprattutto da parte del mondo vespistico, tenendo conto che le cose spettacolari non mi appartengono. Ebbene si consideri che io, da buon tipo schivo, non ho mai simpatizzato per gli show senza freni… perché non è il mio mondo. Non fanno per me le partenze dei vari viaggi presentati in pompa magna con tanto di squilli di tromba istituzionali, come se si partisse per lo spazio cosmico o chissà verso quale cosa mai vista. Non mi possono di certo entusiasmare, tanto è vero che io ne ho sempre fatto a meno sia nelle partenze sia nei ritorni a casa. Amo il silenzio, lontano dalle luci esibizionistiche della ribalta e, all’opposto, non amo la teatralità sia nella buona sia nella cattiva sorte: ma questa mia prerogativa è difficile che sia compresa e accolta, lo so. Ognuno ha il suo carattere e tuttavia il mio non può essere preso a modello.



Al riguardo degli aneddoti, mi è nel cuore l’essere ben citato in vari libri, ed è una cosa che m’inorgoglisce. Nel gennaio 2022 il “Vespa Club d’Italia” ha pubblicato “Vespa Rally”. L’autore è Roberto Donati (responsabile allo sviluppo della crescita culturale e storica del “Vespa Club d’Italia”), e il libro è stato stampato in 80.000 copie da distribuire in omaggio ai 77.000 tesserati dei 583 “Vespa Club”. Ha 128 pagine tutte a colori, per un formato ‘A4’: le pagine 114 e 115 sono dedicate a me. Nella copertina cartonata, tra le varie foto, c’è spazio anche per la mia Gigia e perciò ne sono onorato. Nel libro speditomi, Roberto Donati mi ha scritto la dedica: lo ringrazio sia per il regalo che mi ha fatto sia perché ha acquistato 3 copie della 1ª edizione del mio ultimo libro.

C’è anche chi mi ha fatto un po’ di pubblicità, come Fabio Bianchi: a pagina 79 del suo libro “Letteratura Motociclistica Giovanile” (maggio 2022 – 254 pagine – Youcanprint) è gratificante leggere otto righe che mi coinvolgono. Lì ci sono anche le citazioni con i titoli di cinque miei libri pubblicati. Lo ringrazio per la considerazione. Fabio, tra l’altro, mi ha acquistato 3 copie della 1ª edizione dell’ultimo mio libro e, per di più, tramite l’editore Francesco Urso ha comprato pure quello sul Cammino di Santiago che mi è stato pubblicato nel marzo del 2021.

Oltre a Bianchi segnalo che nel maggio 2023 Edi Fadelli ha pubblicato “L’asfalto sotto le ruote lungo le strade d’Europa – Viaggi e avventure dal Friuli in Vespa” (288 pagine – Amazon) e, per l’occasione, lui mi ha proposto di stilare la prefazione del suo libro (che gli auguro sia il 1° della serie…); beh un po’ mi ha sorpreso ma, nel contempo, mi ha fatto piacere la sua piena fiducia verso di me. Tra le sue pagine c’è un ampio spazio a me dedicato, in cui spiccano bellissime parole nei miei confronti, con un intero capitolo solo per me: da pagina 267 a 271. Grazie, Edi. Per di più lui ha comprato 2 copie della mia seconda edizione, nonostante che ne abbia già comprato uno della prima edizione.

Riguardo alla prefazione è la seconda volta che ho l’opportunità di scriverla: la prima fu per Flaviano Oliviero, nel dicembre del 2014, che me la chiese – tramite Enrico La Manna (Presidente del Vespa Club Leoni Rossi di Grottaminarda, in provincia di Avellino) – per il suo libro “Viaggio irpino in Vespa”. In entrambi i casi mi sono fatto contagiare con un certo fervore (cosa che mi capita solo quando c’è qualcosa che mi piace). Tornando a Flaviano, la cosa mi piacque al punto tale che coinvolsi Marika a fare un’impaginazione grafica del tutto autonoma, senza avere nulla a che fare con quella cartacea del libro, valida stavolta solo per il Web. Poi, tramite Enrico, l’impaginazione è stata messa per intero in un Blog, nato per l’occasione e intitolato “Le strade dell’Irpinia in Vespa”, che chiunque può vedere cercandolo su Google.

A Grottaminarda sono stato trattato da re, con tantissimo affetto dai vespisti del Vespa Club Leoni Rossi’: con quattro di loro (Enrico La Manna, Rocchino Solomita, Franco Cataruozzolo e Alfredo Gaeta) l’11 giugno 2017 si è perfino andati a Sasso di Castalda, in provincia di Potenza, sul ponte tibetano ponte alla luna, che ha una campata unica di ben trecento metri e si è sospesi nel vuoto a centoventi di altezza dal torrente sottostante. Un’esperienza fantastica ed elettrizzante: grazie alla loro generosità. In sostanza, che cos’è un ponte tibetano? È un ponte sospeso nel vuoto, costruito su delle spesse funi di acciaio con dei mancorrenti – sempre in acciaio – e con pedane distanziate le une dalle altre da circa venticinque centimetri di vuoto: in questo modo si può vedere bene il paesaggio di sotto. Le pedane sono lunghe una trentina di centimetri e larghe una decina. Le funi di acciaio sono galvanizzate, coperte cioè da uno strato di zinco per essere protette dalla corrosione. Da non confondere, comunque, un ponte tibetano con quello sospeso giacché non hanno niente in comune. Nei ponti sospesi, di cui sono lunghissimi quelli svizzeri, si può passare con passeggini, pattini a rotelle, tricicli per bambini, biciclette, con i cani e, volendo, si potrebbe transitare addirittura su una moto o con un asino, o con le stampelle. Cose impensabili su un ponte tibetano. In fin dei conti il ponte sospeso ha una pavimentazione piatta e uniforme, senza dei vuoti, e quindi il senso di vertigine è impensabile.

Le due prefazioni qui dette mi fanno pensare all’amico Sergio Stocchi (nato il 2 gennaio 1926 e morto il 9 aprile 2007) e al fatto che fra Sergio ed io si era instaurata una buona amicizia nonostante che lui avesse quasi ventisei anni e mezzo più di me. Ah, un particolare: come fece con me Stocchi scrivendo la prefazione del mio secondo libro (“Giramondo libero – In viaggio con la Vespa o con lo zaino” – Giorgio Nada Editore)… come una ruota, a parti invertite, è capitata la stessa cosa tra Flaviano, Edi ed io.

Non posso tacere di un’altra bella cosa: nel settembre 2023 ‘Erga Edizioni’ ha pubblicato “La prima Vespa non si scorda mai”, di Paola Scarsi, realizzato in collaborazione con la ‘Fondazione Piaggio’. È un libro divertente che raccoglie sessantanove testimonianze di vita vissuta con la Vespa. Ha 208 pagine e tre delle quali sono tutte per me, dalla 45ª alla 47ª.

Infine segnalo un’idea strampalata, che presumo non germoglierà, tuttavia l’accenno perché vi è un po’ di umorismo. C’è un ‘amico’ su Facebook che mi ha detto di voler scrivere un qualcosa su di me, che oscilli tra biografia e narrazione. Non ci conosciamo di persona ma solo virtualmente, e da quel che ne so lui è un tipo che vive di emozioni altalenanti partendo alla grande per poi arenarsi… senza quindi arrivare alla meta prefissata. Mi dice che ha già raccolto parecchio materiale su di me, prendendolo dai miei Blog, dagli album del mio diario su Facebook, dalle interviste che mi sono state fatte e da un paio di miei libri che ha comprato: caspita! È su queste basi che dovrei appoggiarmi, ma non sono propenso a dare credito a questa proposta del tutto inusuale. E siccome ci credo poco alla riuscita di questo lavoro editoriale, penso che sia meglio non aggiungere altro, neppure il nome di questo personaggio bizzarro (ma che mi è pure simpatico). La domanda vera è: a chi mai potrà interessare una pubblicazione su di me, visto che faccio fatica con i miei libri?

Era domenica 18 maggio del 1952, poco prima di mezzogiorno di un anno bisestile, quando venni al mondo a Cermenate (in provincia di Como, circa trenta chilometri da Milano). I miei genitori mi hanno affibbiato il nome Giorgio Caeran e me lo tengo, anche se poi io ci ho aggiunto l’accento tonico sulla prima vocale per distinguermi dalle origini paterne (venete) a quelle dove sono cresciuto. Una curiosità: anche mia figlia è nata di domenica in un anno bisestile e del resto lì ci sbatto spesso, sposandomi pure in un anno bisesto ma con una chicca in più… ossia facendolo in un giovedì 16 luglio. Avrei tanto voluto sfidare la sorte sposandomi il giorno dopo, ma sarebbe stato osare troppo anche per uno non superstizioso come me. A ogni buon conto, dal 1980 non vivo più nel mio paese nativo ma a Milano, dove sono anche diventato padre.

Riguardo al mio cognome succede che ci sia chi intenda conoscere le sue origini… chiedendomi se sia veneto o friulano, o addirittura austriaco. C’è da chiarire che, sebbene io sia nato in provincia di Como, da parte di mio padre ho origini venete. In poche parole, mentre la discendenza di mia madre (Bazzi) è cermenatese ad hoc, quella di mio padre, che fra l’altro giunse a Cermenate nel 1927 quando aveva l’età di otto anni, viene da Montebelluna (in provincia di Treviso), quindi a soli quattro chilometri da Caerano di San Marco. Meno male che non si chiama Caerano di San Giorgio, altrimenti mi sentirei troppo coinvolto… ahahahah. Sulla pronuncia del mio cognome c’è dell’umorismo. È fresco nella mente ciò che accadde il 7 giugno 2021, in occasione della laurea di mia figlia. Ebbene fu presentata come… Chiara Ceran. È la stessa cosa che mi capitava quando io ero studente, perché in quell’ambiente spesso si fa riferimento al latino. Infatti, lì ogni parola la si legge come si scrive tranne in una eccezione: i dittonghi ae e oe si leggono e, salvo che essi non siano segnati con una dieresi (¨), ovvero un segno diacritico che indica quando due vocali non fanno dittongo. Beh, per evitare pasticci io mi tengo sempre più stretto l’accento tonico sulla prima a, di modo che ai professori di latino sorga almeno qualche dubbio. Anche se a certi docenti ci sarebbe da far loro notare che il latino si usi soltanto dove c’è, ma senza pretendere che sia ovunque.

Ho sempre amato i viaggi, sin da quando ero giovane, deciso a licenziarmi quando il datore di lavoro non mi concedeva dei mesi di permesso non retribuito. Io, però, volevo andare in India con la Vespa (e starmene via senza date da rispettare), attraversare il Sahara con ogni mezzo, navigare il rio Ucayali su una rudimentale imbarcazione (mangiando cibi cotti con l’acqua del fiume), andare nella Patagonia e nella Terra del Fuoco (in autostop), salire sulle Ande, conoscere l’Africa. Non posso dimenticare anche i viaggi faticosissimi nell’Africa subsahariana, sia su deteriorati tassì-brousse (tassì collettivi) sia su sovraffollati treni; o che in Madagascar ho rischiato di annegare per cause assurde. Ovunque ho ricevuto calorosa ospitalità e aiuti da parte dei nativi, ho familiarizzato con una moltitudine di persone… alcune delle quali sono poi venute a trovarmi in Italia. Per vivere appieno queste esperienze non avevo alternative che dire addio ai miei posti di lavoro, oppure ottenere permessi non retribuiti (ma in questo caso solo in un paio di occasioni è stato possibile farlo, perché di norma non è mai concesso). Sono stato un viaggiatore di un’epoca lontana, volevo girare il mondo senza sentirmi intrappolato del calendario… e perciò che dovevo fare? Senza tentennamenti mi licenziavo e tentavo la sorte, nella speranza di trovare un altro posto di lavoro al mio ritorno. Poi è ovvio che creando una famiglia non potevo più interpretare ancora quella vita sognatrice che amavo; sono arrivato a dei compromessi ma certi richiami, seppure assopiti, ci sono sempre. Per fare il figo potrei dire, come fanno certuni, che è stata l’avventura a scegliermi, ma la cosa mi fa ridere. È un concetto fiacco trattare l’avventura come se fosse una persona: lei non può avermi preso per mano, ma semmai è stata la mia volontà ad avvicinarsi a lei (e non era affatto scritto nelle stelle).

Sono sempre troppo in anticipo o troppo in ritardo; il risultato non cambia. Ma mi si permetta di dire che vado avanti per la mia strada, con ostinazione e con fierezza. Non seguo le mode, nemmeno nella scrittura o nello star dietro al mondo vespistico; non ho mai avuto né vestiti firmati né macchine nuove, so vivere senza grosse pretese e mi annoia ripetere le stesse cose all’infinito. Non mi sono mai tinto i capelli o fatto ricorso alla chirurgia estetica, invecchio tra i miei sorrisi e le mie tristezze. Vivo della mia storia. Leggo, scrivo, rifletto e imparo (quando ci riesco). Sto tra le mie àncore, poche. E a volte mi sembra tutto; sul lungomare, sul lungofiume, o su sentieri di montagna e di campagna. Sono disinteressato all’attaccamento delle cose, al senso del possesso: sono fatto così e non mi pongo il quesito se ciò sia un bene o un male perché non m’importa. Come non m’importa collezionare scooter antichi (e ingombranti) solo per tenerli in bella mostra, seppur non funzionano. Io voglio motocicli vivi, da poter ancora usare, mentre per quelli morti è meglio che vada a vederli altrove.

Per dirla alla Nanni Moretti, penso che alla fin fine io abbia girato, visto gente, conosciuto e fatto cose. Anche cose che mi auguro dureranno nel tempo, ben oltre lo spazio dei miei anni. Eppure, non mi va di vivere di ricordi perché a me interessa il presente, più del passato che ben conosco. Per questioni anagrafiche passo, almeno in parte, il testimone. Un giorno dovremo per forza lasciare ciò che ci è stato dato, ciò che abbiamo trovato e ciò che abbiamo creato, ma dobbiamo dapprima lasciarlo andare.

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IL NORDKAPPISTA

“Le corse in moto e il fastidio della modernità, il gusto della solitudine e il perdersi nella massa, l’ansia d’assoluto e il minuto mantenimento del presente, uomo del suo tempo eppure nato fuori tempo, asceta ed esteta”.