La Società della Neve: sopravvivere a tutti i costi

Una storia tragica di cannibalismo, morte ma anche di forza della disperazione in una situazione che, ancora oggi, si fa fatica a immaginare.

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La Società della Neve: sopravvivere a tutti i costi

La vera storia che ha ispirato il film candidato agli Oscar 2024, il disastro aereo della squadra di rugby uruguaiana nel 1972. La Società della Neve, il film uscito recentemente su Netflix per la regia di Juan Antonio Bayona, racconta di un fatto di cui ricordo il clamore e i titoli sui giornali pur avendo avuto, ai tempi, 8 anni.

Sarà che detesto prendere l’aereo ma le pellicole che parlano di fatti accaduti a chi è in volo attirano sempre il mio interesse e le mie riflessioni. La Società della Neve è un adattamento dell’omonimo libro di Pablo Vierci, che documenta i racconti dei 16 sopravvissuti allo schianto. La pellicola è stata slezionata per rappresentare la Spagna ai premi Oscar 2024 nella sezione della migliore pellicola internazionale. Una vicenda che ha più volte ispirato film, libri e serie televisive. Il più noto è Alive – Sopravvissuti, il film di Frank Marshall del 1993 che, pur non essendo il primo tratto dal disastro aereo delle Ande, è rimasto il più noto.

È il 13 ottobre del 1972. Sul volo charter 571, in un’atmosfera di “serena gioventù”, troviamo la squadra di rugby Old Christians Club che, insieme ad alcuni amici e familiari, sono in viaggio per andare a giocare una partita. La rotta è da Montevideo, in Uruguay, a Santiago, in Cile. C’è solo un passeggero che non ha alcun legame con la squadra. Mentre l’aereo si avvicina alla destinazione, il copilota, il tenente colonnello Dante Lagurara chiede all’aeroporto di Santiago il permesso di atterrare. Immaginiamo la situazione, caliamoci “nell’attimo”. Il rumore delle eliche dell’aereo militare, quasi ipnotico, ci si avvicina alla destinazione.

La Società della Neve: sopravvivere a tutti i costi

All’improvviso accade l’imponderabile. Il volo charter 571 si schianta su un ghiacciaio isolato nei pressi del monte El Sosneado, nella provincia di Mendoza, in Argentina, nel cuore delle Ande. Dei 45 passeggeri a bordo, solo 27 sopravvivono allo schianto e alle immediate conseguenze. Intrappolati in uno degli ambienti più inaccessibili e ostili del pianeta, di una selvaggia e indicibile bellezza, quasi “la vetta del Monte Analogo” dove risiede “L’Inaccessibile guenoniano”, sono costretti a prendere misure estreme per rimanere in vita. Dopo due mesi saranno in 16 a riuscire a mettersi in salvo. Il film descrive in maniera approfondita cosa accadde in quel deserto di tenebre, biancore e luce accecante.

Il copilota Lagurara e il pilota, il colonnello Julio César Ferradas, avevano probabilmente calcolato in maniera errata la posizione dell’aereo. Pensavano di essere in prossimità della pista di atterraggio. Altra ipotesi possibile formulata sul disastro: il malfunzionamento del sistema Vor (impiegato prima dell’avvento del Gps) originato da interferenze magnetiche provocate dalle perturbazioni. Queste avrebbero fatto scattare “erroneamente” la segnalazione dell’avvenuto passaggio sulla verticale di Curicó – come avrebbe più volte detto il secondo pilota prima di morire poco dopo l’impatto per le lesioni riportate.

In realtà, sulla base di questi calcoli errati, il, appena fuori dalle nuvole, il velivolo non troverà la pista ma le montagne, andandosi a schiantare. La carlinga del Fokker precipita come un siluro lanciato da un aereo su una spianata. Scivola veloce sulla neve fresca, per due chilometri, tra le urla dei passeggeri terrorizzati, al pari di un grosso bob. Si ferma solo dopo aver impattato con cumulo di neve solidificata dalle rigide temperature.

Dopo l’impatto, in quel che rimane di una parte del troncone dell’aereo, i sopravvissuti rimangono con una sfida terribile da affrontare: sopravvivere nel mezzo delle Ande ghiacciate, con temperature sotto lo zero e bufere di neve. Senza forniture mediche, fonti di calore o cibo, i sopravvissuti utilizzano parte dell’aereo distrutto come rifugio e trasformano i bagagli in pareti e i rivestimenti dei sedili in coperte. Ben presto, estrema ratio, dovranno fare la scelta più difficile: trasformare i cadaveri in cibo.

Dopo 10 giorni dalla caduta, muoiono altri sei tra i sopravvissuti. Chi rimane vivo comincia a seccarsi, a prosciugarsi come una pianta. Non rimane che “il cannibalismo”. Il sopravissuto Roberto Canessa, nel volume Dovevo Sopravvivere, uscito nel 2018 per Carlo Delfino editore, ha scritto: “Non dimenticherò mai quella prima incisione, quando ogni uomo era solo con la sua coscienza su quella cima infinita, in un giorno più freddo e più grigio di tutti quelli precedenti o successivi. Noi quattro, ognuno con una lametta o un frammento di vetro in mano, tagliammo con cura i vestiti da un corpo il cui volto non potevamo sopportare di guardare”.

Nel pomeriggio del 29 ottobre, dopo due settimane dall’incidente, una valanga si abbatte sul tronco dell’aereo usato come riparo, uccidendo altri otto dei sopravvissuti. Bisogna fare qualcosa e non può essere aspettare i soccorsi perché la radio ha decretato la fine degli stessi (esattamente il 21 ottobre) che riprenderanno col disgelo. È in quell’istante che Canessa, Nando Parrado e Antonio Vizintín decidono di tentare. Scalare la montagna per arrivare in Cile nella speranza di trovare aiuto.

Dopo oltre una settimana di cammino, vedono un mandriano, Sergio Catalàn, che si trova dall’altra parte di un ruscello. Scrivono un biglietto, lo avvolgono in una pietra e lo lanciano verso il mandriano. Il testo recita: Vengo da un aereo che è caduto nelle montagne. Sono uruguaiano. Sono dieci giorni che stiamo camminando. Ho un amico ferito. Nell’aereo aspettano 14 persone ferite. Abbiamo bisogno di andarcene velocemente da qui e non sappiamo come. Non abbiamo da mangiare. Siamo debilitati. Quando ci vengono a prendere? Per favore, non possiamo più camminare. Dove siamo?“. E l’incubo avrà finalmente termine. Erano nei pressi di Los Maitenes, in Cile.

La Società della Neve è un film con cui non si corre il rischio di annoiarsi. Nonostante il palcoscenico sia monotematico. Le giornate sono sempre uguali, lo sfondo lo stesso, neve accecante e il continuo ansimare del pericolo che incombe sui presenti. Ma il film non è mai ripetitivo. La pellicola scorre fluida. Merito anche della regia di Bayona che dipana la trama tra suspense e musiche abbinate in maniera ottimale.

Il film, è da comprendersi, svicola da “eccessi tragici” e riduce i contrasti. L’atto di “cannibalismo”, fuori da narrazioni preistorico-tribali, assume perfino contorni spirituali nel film che ripercorre la vera storia del disastro aereo. C’è da immaginare che l’atmosfera per la sopravvivenza sulle Ande non sia stata, tra gli stessi sopravvissuti, un’atmosfera priva di litigi, espedienti, acrimonia. Il regista, però, facendo bene, non punta alla spettacolarizzazione di tutto ciò. Utilizza la storia delle persone per farne un esempio di come sia possibile, nell’ora più oscura, far emergere il meglio di ciascuno.

Basti notare la serenità stessa con cui i protagonisti approcciano alla reatà incombente della morte che è ovunque. Prevale un profondo desiderio di essere migliori, di aspirazione alla catarsi finale che trasforma un fatto tragico e di cannibalismo in un mito, in una storia che potrebbe insegnarci come possiamo fare del nostro meglio in ogni momento della nostra vita.

Scriverà ancora Canessa: “Condividere quell’esperienza traumatica, prima nel libro e ora anche attraverso il film, è stato catartico e terapeutico per tutti loro. Solo il tempo gli ha permesso di ritrovare un equilibrio e far pace con quell’esperienza, che uno solo di loro ha rielaborato chiedendo un sostegno psicologico al rientro. Tutti hanno raccontato i dubbi esistenziali e religiosi ma anche il potere della solidarietà, dell’aiuto indispensabile alla sopravvivenza. L’amicizia ha trasformato il cannibalismo in scelta lacerante ma perdonabile e la generosità dei moribondi che si sono offerti ha dato, paradossalmente, un senso alla loro morte”.

Nel 2012 i superstiti di questa tragedia si riunirono sul campo di rugby per la famosa partita che avrebbero dovuto giocare contro cileni dell’Old Grangonian Club quaranta anni prima. In quella, e in molte altre occasione, portando omaggio ai compagni che persero la vita su quella montagna, ricordarono puntarono a sottolineare quanto, in quella luce di morte e di speranza al tempo stesso, fu importante lo spirito di squadra per sopravvivere a 72 giorni di inenarrabili difficoltà.

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IL NORDKAPPISTA

“Le corse in moto e il fastidio della modernità, il gusto della solitudine e il perdersi nella massa, l’ansia d’assoluto e il minuto mantenimento del presente, uomo del suo tempo eppure nato fuori tempo, asceta ed esteta”.